
Papà cos’ è questo feto e questa foschia che la sera scende sul paese?
Era estate, le sedie di tavola davanti le porte, alcune avevano la seduta di compensato altre invece fatta con fili di paglia intrecciata che per l’usura si sfilacciava vicino ai bordi. Alcune già occupate dagli uomini di casa grandi e picciriddi, spesso seduti con la sedia tra le cosce e la spalliera messa al contrario, per appoggiarvi petto e spalle. Altre destinate alle donne di casa , erano ancora vuote. Era presto, affinché si mettessero davanti l’uscio di casa, per chiacchiariddiare del piu’ o del meno, dei fatti accaduti durante la giornata, delle femmine malannintuvate del paese o magari per raccontare un cunto, oppure vecchie storie, appartenenti ad un passato non più prossimo. Prima il dovere, lavare piatti e pignate usati per la cena da poco ultimata, prima che si intartarino e poi il piacere, ma sempre con un chiffare tra le mani, fatto da un telaio rotondo, con incastrato al centro, quel pezzo di linzolo decorato ad angeli ed agrifogli, che ancora doveva esser ultimato.
Le parole si rincorrevano con i movimenti veloci delle mani e più il discorso era esagitato, più erano veloci e prima il lenzuolo veniva ultimato.
Quella sera quella foschia calò talmente in basso, da far rientrare dall’uscio di casa la rimpettaia, Nicolicchia Spatafora. Era asmatica e le lenzuola stese dal balcone al piano di sopra, se non si trasevano si sarebbero impuzzate. Papà chi cosa è questo feto e questa foschia? Richiesi per la seconda volta. Il marito di Nicolicchia, venne in soccorso alla risposta titubante di mio padre ( è il munnizzaro del Lannaro che abbrucia. È attipo un vulcano che fuma sempre iorno e notte. Però di iorno il fumo, per le condizioni del vento, viene ammuttato lontano dal paese, la sera invece ci accupa sopra le teste).
Gli altri vicini di casa annuirinono, tutti conoscevano la genesi di quella foschia, ma a nessuno faceva scanto più di tanto era soltanto anticchia di fumo .
L’unico che in quei giorni, si era preoccupato per la vicenda, era Ignazio Lo Piparo chiamato il dottorino, visto che da pochi mesi aveva conseguito la laurea in Dottore per gli armali.
Ciò che fece destare preoccupazione ad Ignazio, era strana moria di insetti nelle campagne limitrofe al paese. Malgrado la risposta non ufficiale, ma data a vucca tra una scaccaniata e l’altra, dal preposto del comune (Ignazio ma come, tu sei così grande e grosso e ti scanti di anticchia di fumo che scende dal munnizzaro? ) Ignazio era lo stesso preoccupato e voleva andare a fondo alla vicenda.
Quel fumo sembrava cosa da niente, odorava di plastica abbruciata e faceva lo stesso feto, della munnizza bruciata nelle strade, quando diventava assai e per diminuire il volume del munzeddo , veniva dato a fuoco, era una pratica comune e frequente.
Ignazio tra mille domande, mille male taliate e musi storti, ebbe la fortuna di emigrare, di andare lontano, dove gli occhi e i musi stanno dritti.
Ma suo fratello no.
Filippo era rimasto in quel paese, aveva un lavoro pagato, con i soldi sbattuti in faccia il sabato sera, l’edilizia era prospera e abusiva.
Poi quello strano dolore al petto e quella sputata di saliva mista a sangue.
Il dottorino dopo vent’anni ritornò e tra una lacrima, una nostalgia e tanta rabbia, durante il tragitto del corteo funebre, rivide il munnizzaro del Lannaro. Non più fumante, ricoperto da erba e sterpaglie occluso e mimetizzato tra due valli, scordato dalle memorie e in attesa di chissà che cosa e chi.
La Lia Vincenzo luglio 2016


Un racconto realistico di grande riflessione per tenere sempre presente i mali apparentemente innocui che uccidono .
ma che cavolo si fuma questo qua'????