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In ricordo di Rocco Chinnici

In ricordo di Rocco Chinnici

Ci sono ‘quadretti’ nel recente passato del  paese su cui si è radicata e continua a radicarsi la nostra coscienza di uomini appartenenti ad un consesso civile. Di tanto in tanto, in occasione di una ricorrenza ad es.,  sentiamo il bisogno di rievocarli  attingendo ad un sano bagaglio retorico che è indispensabile per puntellare gli idoli e rimarcare i valori condivisi. Oggi è la ricorrenza della nascita del giudice Rocco Chinnici, un momento topico per ricordare che egli è patrimonio di tutta la nazione.

Il primo ‘quadretto’ ha luogo al Palazzo di Giustizia di Palermo. Inizio anni ’80. Due giudici, siciliani, si incontrano e parlano delle loro inchieste. Lo fanno andando su e giù dentro un ascensore al riparo da occhi indiscreti. Il momento storico è di tutta eccezione; i nemici sono dentro e fuori il palazzo di giustizia. Nel luglio del 1979 è stato assassinato il vicequestore Boris Giuliano, il 4 maggio 1980 il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Un unico filo accomuna le indagini dei due servitori dello stato: il fiume di miliardi che cosa nostra accumula grazie al traffico internazionale degli stupefacenti, le coperture dell’alta finanza e l’incomprensibile collateralismo di importanti pezzi dello stato, dalla politica alla magistratura alle forze dell’ordine. A Palermo comandano gli Spatola-Gambino, ma dentro cosa nostra è in crescita il fenomeno corleonese.  I due giudici sono Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione, e Gaetano Costa procuratore capo della Procura di Palermo. Costa non gode di grandi simpatie. E’ un magistrato solo e Chinnici è uno dei pochi che non lo considera un animale strano.

Il 9 maggio 1980 Costa convoca nel suo ufficio tutti i sostituti; in ballo ci sono una cinquantina di ordini di cattura. Destinatari capi e fiancheggiatori di ‘cosa nostra’. La discussione diventa grossa, i sostituti non concordano con la linea del capo, la mettono in mora. Costa rompe la prassi dell’unanimità, decide di firmare e di assumersi tutte le responsabilità; sa di imboccare una strada senza ritorno. Viene additato come il grande inquisitore, alcuni sostituti scaricano su di lui tutta la responsabilità. Alle ore 19,30 del 6 agosto 1980 muore dissanguato davanti ad una edicola nella centralissima via Cavour di Palermo, dove si era recato a piedi a due passi da casa. Un killer solitario lo sfigura in volto. Un rigido sistema di vigilanza di polizia e carabinieri era stato predisposto per la sua protezione. Peccato che sarebbe stato attivato a partire dal giorno dopo.

Altro ‘quadretto’. Tribunale di Palermo.  Un giovane magistrato di 39 anni proveniente dalla sezione fallimentare, palermitano, presenta domanda per entrare a far parte dell’ufficio istruzione. Non ha conosciuto Boris Giuliano e Cesare Terranova; ha scambiato solo poche parole con Gaetano Costa. Si chiama Giovanni Falcone. Rocco Chinnici, dopo averlo notato, in un giorno di maggio, lo chiama e gli affida il processo Spatola, lo stesso che aveva fatto terreno bruciato attorno a Costa. Falcone intuisce che è proprio sul piano della consistenza patrimoniale che deve manifestarsi l’iniziativa investigativa, dato che la mafia privilegia l’aspetto economico. Si consulta con Chinnici ed avuto il via libera, spedisce a tutti i direttori di banca di Palermo e provincia la richiesta  di tutte le distinte di cambio di valuta estera per le corrispondenti operazioni effettuate negli istituti di credito dal 1975 in avanti. Il ragionamento è semplice. Se l’eroina finisce in USA e viene pagata in dollari, basta trovare i dollari per identificare e colpire registi ed esecutori. A Palermo gli sforzi di Falcone non piacciono. Arrivano le prime lettere anonime, le minacce di morte. Egli stesso racconta: “Le abitudini peggiori al palazzo di giustizia di Palermo? Il pettegolezzo da comare, le chiacchiere da corridoio quando sarebbe preferibile un minimo di riserbo. Di me hanno detto: fa panna montata, affogherà nelle sue stesse carte; non caverà un ragno dal buco”.

L’escalation mafiosa arriva al culmine una sera di settembre del 1982. Il prefetto di Palermo, gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, viene assassinato in via Isidoro Carini. E’ un atto di debolezza delle cosche, un errore. Viene finalmente approvata in parlamento la legge La Torre, rimasta per tanto tempo impantanata nelle secche dei rinvii.  L’ ufficio istruzione di Rocco Chinnici è il primo in Italia che la utilizza.

Terzo ‘quadretto’. Luglio 1983, Milano. Rocco Chinnici svolge una relazione davanti ai componenti di una commissione comunale incaricata di studiare il fenomeno mafioso nell’hinterland. Racconta che il 60, 70% dei fondi erogati dalla regione siciliana vanno direttamente o indirettamente a famiglie legate con la mafia. Elogia la legge La Torre. Spiega che grazie a quella legge le indagini della guardia di Finanza hanno consentito di scoprire imprese mafiose gestite da persone neanche sfiorate dal sospetto di mafia. Un impresario edile di Palermo che ha costruito decine di palazzi e migliaia di appartamenti, fino al 1974 era un facchino della stazione centrale. Stranezze di una città in cui certe cose non bisogna dirle. Ma Chinnici pensa a voce alta. Va a sostituire nel 1979 il giudice Terranova in quella poltrona che scotta e subito accentra le inchieste sui delitti politici: La Torre, Mattarella, Reina, ma anche Mario Francese e l’agente Calogero Zucchetto. Trova che tutti quei delitti hanno un fattore comune con l’ultimo delitto eccellente, quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il 9 luglio 1983 d’accordo con lui Falcone emette 14 mandati di cattura nei confronti di pericolosissimi latitanti del calibro di Riina, Provenzano, Michele e Salvatore Greco. Fra i suoi obiettivi non realizzati per il sopraggiungere dell’attentato, l’arresto dei finanzieri Nino e Ignazio Salvo. La sua ipotesi investigativa è sempre una: c’è una mafia che spara, una che traffica in droga e ricicla soldi sporchi e c’è l’alta finanza legata al potere politico. Bisogna lavorare per arrivare ai centri di potere più alti.

Sono le 8 e 5 del 29 luglio 1983. Una giornata afosa. Rocco Chinnici scende dal terzo piano del condominio in via Pipitone Federico. Un sicario preme il pulsante e quella strada diventa un angolo di Beirut, con lo stesso odore acre della guerra. Con lui muoiono i carabinieri  Mario Trapassi, Edoardo Bartolotta ed il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi.

Rocco Chinnici nasce a Misilmeri il 19 gennaio 1925. Oggi ne evochiamo la memoria. (*)

(*) Tutte le notizie riportate sono tratte dal libro di Saverio Lodato, Venticinque anni di Mafia.

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2 Commenti

  1. legalitario

    Nelle commemorazioni si parla a vanvera. Parole, parole, parole. Finalmente un articolo con un pò di polpa; avevo dimenticato Gaetano Costa, Cesare Terranova. Purtroppo la stampa ci bombarda di notizie sui pruriti di Berlusconi, sulle boutade di Balotelli ..... e quando poi leggiamo un articolo serio ci rendiamo conto che non sappiamo proprio niente di ciò che avremmo il dovere di sapere.

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