I movimenti effeminati e il suo Italiano forbito, avevano portato diversi, da sempre a pensare che padre Abramo fosse ne’ masculo ne’ tantomeno fimmina. I dubbi,per i suoi fedeli, diventarono certezza nell’ omelia della messa vespertina, celebrata alle sei di mattina. Fece saltare tutti dalla sedia “Iu sugnu frocio, gay, arruso, puppo, chiamatimi come volete, chi importanza avi? Andate pure dal vescovo a diriccillo a fare il mio nome, poco importa, però ricordatevi che io vi conosco uno ad uno e conosco ogni vostra infamita’, ogni vostro vizio , capriccio e trasgrissioni. Conosco i vostri letti nunziali e non solo. Allora in verità, in verità vi dico, chi non ha peccato scagli la prima pietra. ” Da quel giorno, nessuno più osò deriderlo, né pi davanti, né pi darrere e non fu piú proferito alcun pettegolezzo a suo riguardo. Lui era stato l’unico, il solo parrino a non schierarsi contro le lunghe cosce, delle canzonettiste Napoletane, ingaggiate per esibirsi durante la festa del Santo Patrono. I pulpiti delle altre chiese, invece, alla notizia del peccaminoso ingaggio tuonarono. Il padre parrino Don Fofo’, alla prima messa del mattino, dalla sacrestia, uscì russu, russu come una paparina e con il nirbuso, che con le dita gli faceva inturciuniare, il lembo del paramento sacro. La chiesa a quell’ora era sempre mezza vacanti e le sue lodi in Latino, rimbombavano più del solito. Nei primi banchi, le anziane fedeli remissive, lo seguivano per abitudine e per lo stesso motivo, rispondevano meccanicamente ad ogni litania o gloria e padre. La za’ Betta, come sempre stava con la testa calata e non disdegnava d’intervallare alle lodi, qualche sonora arrunfuliata e non era l’ unica. Dal fondo chiesa e anche dai banchi di destra e sinistra, le teste, stavano chine e non solo per pregare. L’odore dell’ incenso misto a quello delle cannile, inebriava di sacro pure la stissa aria che si respirava e i primi raggi del sole austino, filtrati dalla vetrata, tingevano di rosso, giallo e verde le pareti, i simulacri e perfino la nuda testa di Calorio mezzatesta, il pazzo del paese. Quella mattina, l’ omelia di Don Fofo’, non fu la solita, con il suo parlato, lento moscio e nasale. Trasformò timbro e tono,la voce gli divenne cavernosa, ritmica e veloce, da farlo apparire posseduto dal Diavulo in persona. Con aria solenne e testimone di moralità, sali’ sul pulpito a forma d’ aquila con la vucca sbarrachiata, che sorreggeva la bibbia e allo stesso modo, quasi volesse emularla, sbarrachio’ la sua, senza sosta, per un ora filata. Tutti conoscevano la sua indole e la sua panza tinta. Il suo colorito, i suoi capelli ricci e nivuri come il tizzone e i suoi lineamenti aspri e rozzi erano la fisiognomica perfetta per il suo malo-carattere. Il parrinazzo di moralità ne aveva sempre avuto picca e niente. Le sue omelie erano occasione di disprezzo per gli storti, gli sminorti e per gli scimuniti e ad alta voce li definiva, sgorbi testimoni dei peccati dei loro padri. Invece dei vecchi, puzzolenti di piscio e tabacco, ne rideva con le sue sacrestane, alle quali severamente raccomandava, di non farli piasciare nella latrina della chiesa,per lo scanto che potessero sporcare o forse dissacrare di marciume e vecchiume la santa latrina ecclesiale. Ma quel giorno, perfino il Diavulo in persona si scanto’ e scandalizzò alle sue parole, che incupirono finanche i raggi di sole, filtrati dal rosone al centro della facciata della chiesa. Alzò il braccio destro, la manica scivolò esponendo il suo orologio di oro chino e come un cane arraggiato sentenziò e difese la pubblica moralità.” Quest’anno nell’approssimarsi della solenne festa patronale, ho avuto sentore, che nel programma sono state incluse delle <<Canzonettiste Napoletane>>. È a voi madri Cristiane che mi appello. Viva Gesù Cristo, abbasso Satana! Secondo gli infami suggerimenti di alcuni, che con arroganza decidono le sorti della nostra comunità, con gravissima offesa della religione e della morale cristiana, si vogliono profanare le imminenti feste del nostro glorioso Santo Patrono, con l’ immorale spettacolo delle <<canzonettiste Napoletane >> .Sento tutto il dovere, di avvertite le buone madri Cristiane di questa comunità, sul pericolo che corrono le loro figliole di essere scandalizzate. Le canzonettiste Napoletane non saranno mai contegnose, né morali e ci fa meraviglia come certuni, che pur si dicono cristiani, possano regalarci delle pubbliche oscenità nelle feste dei Santi. Io quindi, volendo il bene religioso e civile del nostro paese, prego tutte le buone madri Cristiane, nonché tutte le persone sennate ed oneste e la gioventù Cattolica, a volersi astenere in segno di protesta dal prendere parte all’annunciata gara delle canzonettiste Napoletane. Per il seguente doppio motivo: e per tutelare il pudore e la modestia delle anime innocenti e verginali e per non cooperarsi alle abominevoli profanazioni delle feste della nostra sacrosanta religione.” Impaurita dalla sfuriata, quasi a volerla preservare, donna Pina strinse a sé sua figlia, oramai in età adolescenziale e lo stesso fece con la sua, Ciccina la revusa. Intanto fuori, davanti il sagrato della chiesa, i preparativi già da quell’ora fervevano. Nino anche storte, come una scimmia si arrampicava sui tralicci per tirare, attaccare e legare le luminarie, seguendo le direttive urlate del suo principale. Le bancarelle a suon di chiodi e bestemmie venivano montate e sistemate. Alcune di iuta, altre di incannizzato, altre ancora, quelle dei siminzari, con le scene tinciute di Orlando, Rinaldo, Angelica e di altri cento paladini e sarracini, sembravano dipingere come mille pennellate, la via principale del paese. I caliatori gia’ con la matinata, fumavano come ciminiere e affumavano e tostavano calia e mennole. In ogni casa i preparativi fervevano, Peppino il figlio del sagrestano gia’ da un mese era pronto per la festa, i pantaloni di suo fratello per lui ormai stretti, gli vennero sistemati e rattoppati, sia nelle ginocchia che dietro al culo. Sembravano tornati nuovi, nuovi, come quando Donna Titi’ la sarta, li aveva cuciti ricevendo in cambio mezza bottiglia di olio, un paio di manciate di farina e cinque litri di vin sacro. La festa era occasione per avere in tavola un pezzo di salsiccia e ne segnava l’ inizio stagionale. L’ ultima, appesa nelle vetrine nei chiancheri, si era vista per Pasqua. Il fumo della sua cottura, doveva invadere strade, viuzze e le case del vicinato, a testimoniare una falsa abbondanza. Le riunioni del comitato organizzatore, erano giornaliere, alcune ufficiali altre meno, fatte d’ammucciuni e solo per pochi intimi. Invece il compito di arricogghiri i soldi per la festa era obbligo imprescindibile per tutti i confrati. Non c’era putia, chiaca, bar e casa che non veniva interpellata per contribuire alla festa, ma la parte piu’ grossa , si arricugghia chiedendo nelle campagne un obolo in grano ai coltivatori e nessuno si tirava narre’.Se il santo non veniva degnamente arrispittato l’ anno successivo sarebbe stata, un’annata sventurata e scarsa. Il grano veniva accucchiato al centro del malaseno di Don Saro, formava un’enorme montagna pizzuta, dai fianchi ripidi e per occupare meno spazio e non ammuffire veniva di continuo spalato e arrunchiato al centro. La sua rivendita all’asta sarebbe servita per pagare l’illuminazione e i giochi di fuoco che dovevano sbalordire, meravigliare, far tremare menzo paese e tenere tutti con la testa impiccicata al nero e stellato cielo notturno di fine agosto. La sua qualità, si misurava da quanto facesse tremare, con la sua onda d’urto la ninfa , una grande corona illuminata appesa nel centro della piazza, sotto la quale il santo si fermava, prima di entrare in chiesa e da quanto lontano, nei paesi limitrofi i botti sarebbero arrivati, portando con loro invidia e guanti di sfida.
Gli impegni repentini legati ai preparativi, sembrava all’apparenza avessero fatto dimenticare il murmurio e i dissapori scaturiti per la vicenda delle canzonettiste, ma fu soltanto vana impressione. Il fuoco covava sotto la cenere e le nivure tonache dei parrini. Si riaccese in tutto il suo impeto il giorno della messa patronale, la missa delle misse, cosi’ partecipata da far risultare la chiesa matrice, la piu’ grande del paese, poco capiente. Per ovviare in parte e dar possibilità a quanti piu’ fedeli di seguire le celebrazioni, il grande portone ligneo venne lasciato aperto e la gran folla, partecipo’ aggritta, da davanti la chiesa. Erano tutti presenti, carrubbineri e puntuneri in alta uniforme, il sinnaco con la fascia tricolore ben stirata e sistimata, giunta e consiglieri con l’unico abito elegante da cerimonia da sfoggiare solo per la missa patronale e che a fine festa veniva diligentemente sarvato con la naftalina in sacchetta. I posti in prima fila come ogni anno vennero riservati alle autorita’ , ma in quell’occasione ebbero il retrogusto che hanno i patiboli prima delle esecuzioni. Sindaco e parrini concelebranti, prima della santa missa, non si degnarono manco di un accenno di saluto, di menza risata di compiacimento, che testimoniasse l’accordo tra amministrazione e potere ecclesiastico. Al suono della campana e con l’introduzione del coro, la missa inizio’ e da subito furono taliati e malitalitaliate e le parole del parrino, solenni cazziate. Il sindaco sulla seggia smaniava, il suo sguardo dispiaciuto, la testa a pinnuluni e le mani giunte annacate su e giú, raccontavano la sua totale estraneità ai fatti. Invece quelli assittati lateralmente nell’abside, i veri artefici dell’infausto e peccaminoso ingaggio, i confrati, se la godevano e delle parole del parrino, se ne catastrafottevano. La solenne messa padronale, fù teatro e celebrazione. Le gomitate nei fianchi di nascosto, tra le parrocchiane per destare attenzione alla vicina di seggia, alle frasi al vetriolo del parrino contornarono tutta la santa missa “ U senti, u senti? Attenta , attenta”. Frasi suttavuci, ma non troppo per arrivare ed essere sentite dal sinnaco in prima fila ” Svergognati, atei, figghi di satana, vergogna “. La missa fu tempesta con lampi e troni di parole, e lo scambio del segno della pace non servi’ a ricolmare il mancato saluto tra parrini e sinnaco. La sera,non tardo’ ad arrivare e sul palcoscenico pi davanti la chiesa si accesero le luci, una grossa stoffa a drappi rossa come il peccato e come il fuoco, faceva da coreografia al palcoscenico e richiamava le sembianze del Moulin Rouge. La chiazza era china, china come non mai, come memoria dei piu’ vecchi non ricorda, accussi’ china che dal balcone del municipio, da dove si affacciava il sinnaco parevano tante furmicole, un tappeto di furmiculi. E la finestra della sacrestia buia ma avvanniddata tradiva la presenza di occhi che spiavano e scrutavano. L’ ingresso delle canzonettiste, fu un tripudio di occhi sbarrachiati e bocche con la bava che ci sculava di lato. Le luci si accesero, i musicanti con gli occhi fissi sul palcoscenico attaccarono e una per una, una appresso all’altra le canzonettiste entrarono. Con le cosce alla nura che ci spuntavano dallo spacco, le minne strinciute dal corpetto che prospicevano verso in fuori, la pelle bianca come burro e i loro capelli che fruenti si annacavano sulle spalle, le ciglia che sbattuliavano attipo mantici e quelle bocche con il tincimusso russo come fragole di primavera. Nessuno aveva mai visto in paese tanta biddizza tutta nsemmula. Di fimmine così, fino a quella siritina mamco se conosceva l’ esisteva. La più bella del paese era Tina la Minzagnota, la figlia di Genoeffa la Palermitana. Era una bella fimmina se non fosse per il pirretto piluso sul naso. E se non per altro, in paese era conosciuta, sia per il culo a mandolino, che per la sua disponibilità relazionale con masculi di gran lunga avanti nell’età e con la sacchetta china. Ma nulla, poca cosa a confronto di quello stock di fimmine, capaci di far resuscitare i morti eufemiacamente parlando. I maschi di ogni età e ceto sociale, in prima fila, già dalla prima canzone e dalla prima annacata di cianchi e anchi, aggiarniarono, socchiusero gli occhi, per far spazio nelle loro menti a pensieri peccaminosi e le loro labbra da tutti i muzzicuna che si auto inflissero, addivintarono russi e vunci attipo il pumaroro corleonese, nella sua massima maturità. Nessuno restò indifferente a quel tripudio di ormoni femminili, invitanti ai peccati della carne. Manco quelli ammucciati dietro la finestra della sacrestia avvaniddata e al buio, i detentori della moralità del paese, i parrini. In riunione per pregare ed allontanare le schiere di satana, materializzate sotto forma di procaci ed avvenenti fimmine. Da moralizzatori divennero prede dei peccati carnali. Padre Abramo fu l’ unico a restare indifferente con il rosario sorretto da entrambi le mani, ma gli altri tre parrini agirono allo stesso identico modo dei picciotti in prima fila. Socchiusero gli occhi, si muzzicarono e liccarono le labbra, i loro ciati divennero ansimanti e le loro mani, strinsero con una il rosario e con l’altra diedero una peccaminosa munciuniata … alla tonaca.
Vincenzo La Lia maggio 2018