Erano tempi di messa, di incenso, di cannile, di scampaniate con la matinata e con la siritina, di Maronna esposta, di primo friddo pungente, di luminarie natalizie e di finestre dalle quali si intravedevano alberi di Natale con luci adduma e astuta.
Altare in festa, con drappi blu ricamati con tante stidde d’ oro che scendevano lateralmente al simulacro e di supra si riunivano in una grande corona di ligno, tinciuta tutta d’oro .
I picciriddi nun capivano se era in carne e ossa o di ligno scolpito, sembrava che da un minuto all’altro dovesse parlare, arririre, muovere gli occhi e comu una matre allisciarti amurevolmente la testa e la facci.
Nonna diceva sempre che lo scultore, l’aveva criata , doppo averla vista in sogno la notte prima .
Nove giorni ininterrotti di misse, una con la matinata che ancora faceva scuro e un’altra la sira, prima dell’ura di manciare.
Entrambi misse erano una più china dell’altra e sempre con una vintina di cristiani che restavano aggritta, davanti le due porte laterali di accesso alla chiesa. Nelle prime file le vecchie con la faccia arrapparusa incorniciata da un velo nero arracamato e con gli occhi socchiusi, murmuriavano insemmula e in coro con il parrino, i vari passi della messa. Nelle ultime file invece, picciotti e picciotte in cerca di sguardi e sorrisi timidamente e appena accennati.
Idda era seduta sempre nello stisso posto, la quartultima fila di sinistra.
E Mario propositamente, per nove giorni di fila, fu assittato nella fila di rarrere .
I capelli di Maria Lo Bello, ricci e nivuru comu la notte , tenuti sommariamenre raccolti da una scocca di velluto blu, gli si impalavano davanti e gli impedivano di osservare in tutta la sua interezza, la bedda matre santissima, che veniva a tratti filtrata dalle ciocche che si inturciuniavano tra di loro.
Ma chi importanza aveva? Non davano disturbo, erano testimonianza che sacro e profano, potevano ire d’accordo e completarsi vicendevolmente.
Ad ogni girata di testa di Maria sia verso destra o sinistra, la bedda matre veniva totalmente cummigghiata, ma in compenso spuntava il profilo della sua faccia, il suo musso e il suo varbarotto in un perfetto allineamento e la sua guancia a disegnare un semiarco a forma di menza luna , una perfetta geometria di biddizza.
Il parrino prericava, ma Mario su dieci parole non ne sentiva e capiva manco una, proprio come donna Ciccina che anche se assittata nelle prime file, alle parole difficili del parrino, arrispondeva con una calata di testa a occhi chiusi.
Per Mario nun c’era avutro modo e manera per poter conoscere, da maronna in terra. E se fosse malauguratamente scappata anche questa occasione, se ne sarebbe riparlato per la iornata di pasqua, quando nuovamente tutto il paese sbummicava fuori dalle case, per passiare ed assistere allu ncontro tra Maria Santissima e Cristo risorto.
E in questo arco temporale, a Mario non sarebbe rimasto che sperare in un improbabile ed inaspettato incontro, oppure passiare e ripassiare davanti la so’ casa, aspittanno come un virmisia ca idda dal balcone lo notasse.
“Cari fratelli e sorelle scambiatevi un segno di pace” era il momento chi iddo, cu cori a mille, aspittava pi tutta la missa, spirando che lei si girasse, isasse lo sguardo e allo stesso modo di come quando, doppo una timpesta spunta un occhiata di sule, il suo sguardo si posasse, si impicicasse, trasisse, divintassi tutt’uno con il suo, illuminannulo di biddizza e amure.
Ma la so’ mano, strincia chidda forte e pussenti, prima d’un murature, poi chidda d’un viddano, poi ancora chidda di un picciriddo mbrazza a so’ matre e di idda e della sua mano, nessun accenno, nudda girata, anche sulu per una taliata verso ri iddo. La mano di Maria e la so’ paci iano prima di ca’ e poi di da’ e a iddo ci lassavano la guerra nta l’arma.
Iddu taliava ncazzatu la prima immagine sacra ca ci vinia di ravante e con il pinseri ci ricia ” si ci si, pi davvero, fammi sta grazia, runamilla in muggheri e poi nun ti addumanno chiu’ nenti”.
Tra tanta gioventù delle ultime file, per il ciavoro dei cucciddati che si portava appresso dalla sira prima, spiccava Tituzza la Calamignana. Sapeva di saime, cucuzzata, mennule, ficu sicche e uva passa. Tituzza usava farne di du’ manere come piacevano a so’ marito Biagio con i ficu sicche e l’uva passa e come piacciono a suo fighhio Mario, con la cucuzzata e le mennule . Lei in faccia guardava sulu la Bedda Matre Santissima, a so’ fighhio e a nuddo chiu’.
E agghinucchiuni, priava per suo fighhio Mario “Madre Santissima, io lu vio ca iddo pate peni d’amure, lu vio ri nta l’ocche ri comu si muove e camina e a notte poi la fa giorno. Ma lu capisciu, ca nudda fimmina si carricasse la so’ cruci. Iddo nun senti e nun parra. Tu ca’ si puru matre, FAMMILLU PI MIRACULO levaccilla ri ntesta, si è pi bene tanti porte aperte si è pi male milli impirimenti”.
La messa è finita andate in pace era a conclusione di quelle preghiere e di quei pensieri.
Il licca meccio astutava le candele, che restavano fumanti per qualche istante.
Una fila più o meno ordinata si creava per uscir dalla chiesa.
Mario porgeva il suo braccio a sorreggere il passo insicuro dell’anziana madre. Il ghioco di fuoco e il feto della polvere da sparo segnavano anche loro la fine del nono giorno.
Mario teneva stritta la mano di sua madre, ma non abbastanza stritta, da non capire che gli stava comunicando “talia ri da’ ”
Maria era ferma immobile, sutta l’ecce homo. Il suo sguardo gli buco’ l’arma, gli gelo’ il sangue e gli fermò il cuore. Fice un sorriso da far agghiornare prima dell’ura e scadendo movimenti della mano davanti il viso, la bocca e il naso gli disse “Le mani e gli occhi possono parlare anche senza voce, buona Immacolata”.
Eppure Maria parrava di voce e quei gesti, quel linguaggio muto, lo aveva imparato solo per lui, l’uomo che per tanto tempo aveva ignorato solo per metterlo alla prova … Una prova d’amure.